L'ho preso al volo una mattina, perché era veloce da leggere in treno e La luna è tramontata stava giusto in una tasca.
Quando riesci a trovare qualcuno che scrive così – e non è facile – sei felice, e sai che durerà fino all'ultima pagina. È poesia venuta lunga come un romanzo, così chiara che ci si vede dentro.
Le proporzioni della storia sono minime: un piccolo, pacifico paese viene occupato dai nazisti. Ma sono nazisti come acquerelli, capitanati da uno che - per esempio - crede che la guerra sia una nebbia che si distende sul cervello e la conquista del mondo e le medaglie ciondoloni sul petto non servano a niente, se poi non puoi voltare le spalle a un uomo senza preoccuparti. Chiaro: gli ordini sono ordini, però, forse, il nuovo grande sistema non è stato inventato da un genio così grande, forse si può amare la guerra solo senza farla, forse non si è per niente più coraggiosi o intelligenti di nessuno e, per quanto dettagliato un piano militare possa essere, non spiegherà mai come si combattono disfattismo e umore nero. Per ogni nemico fucilato ci saranno sempre venti nuovi nemici che non rinunceranno a resistere. Gli uomini liberi non possono scatenare una guerra ma una volta che questa sia cominciata possono continuare a combattere nella sconfitta. Gli uomini – gregge, seguaci di un capo, non possono farlo, ed ecco perché sono sempre gli uomini – gregge che vincono le battaglie e gli uomini liberi che vincono le guerre.
Steinbeck nasconde perle del genere nelle trincee scavate nella neve, scrive sulle bombe che cadono dalla luna, vi fa regali a ogni riga. Cos’è la guerra? Non poter vivere tranquilli. E un soldato? Un uomo che può fare la guerra per molte ore al giorno e soltanto per molti mesi all’anno, e poi vuole tornare a essere uomo.
Il romanzo è del 1942, e non è fra i più famosi o amati di Steinbeck. Però è quello con cui mi sono innamorata io. Se non riuscite a trovarlo - ed è probabile perché è fuori catalogo - potete leggerlo qui.
2 commenti :
Il titolo mi suona strano...che sia il congiuntivo?
Vilma... C'è un libro spassosissimo di Luciano Satta ("Scrivendo e parlando. Usi e abusi della lingua italiana") dove si legge così:
"Questa grande attenzione di molta gente per il congiuntivo fa piacere. Però la molta gente spesso è precipitosa, esige il congiuntivo a vanvera, senza avere raziocinio o intuito sintattico. Mi permetto di trascurare il congiuntivo quando ciò è lecito (e se si perdona il bisticcio, è lecito anche ora che ho detto 'quando è lecito' laddove qualcuno avrebbe preferito 'quando sia lecito', di cui riconosco tutta l’eleganza). C’è chi ha rimproverato me e altri perché scriviamo 'accade che', 'si dà il caso che' con l’indicativo. Ma codesti altri e io ci sentiamo a posto seguendo la distinzione che attribuisce all’indicativo la certezza e la realtà, al congiuntivo l’incertezza e l’opinione. Non c’è bisogno di un 'Accadde che ci incontrassimo', perché 'Accadde che ci incontrammo' regge benone. L’Italia pedante fa del congiuntivo una gloria nazionale come il paesaggio, i cipressetti in cima ai colli, il vino, Dante e gli spaghetti. Ma l’Italia pedante è anche l’Italia che il congiuntivo non lo conosce bene. Voglio dare alcuni esempi, su frasi di tutti i giorni, di congiuntivo obbligatorio o quasi, e di indicativo lecito se non opportuno. La linea di divisione sarà fra caso della certezza e caso dell’incertezza. Nessuna grammatica lo dice, ma 'accertare che' è diverso da 'accertarsi che': 'La polizia ha accertato che l’uomo era disarmato'; 'La polizia si è accertata che l’uomo fosse disarmato'. Mentre la polizia si accertava, non era ancora certa. Insomma, accertare è piú certo di accertarsi, se si perdona il giochino. La sicurezza nel presente vuole l’indicativo. Cerco di prevedere e di prevenire sottigliezze e cavilli giocando di contropiede. Un cavillo è questo, già sentito: come la mettiamo con il sogno, che accade ma non racconta una realtà. Non ho dubbi: 'Ho sognato che eravamo insieme', non 'Ho sognato che fossimo insieme', per carità. La realtà, che poi è diversa dalla certezza, sta nel fatto che il sogno è avvenuto, come si è accennato: se uno sogna di dover baciare una megera e si sveglia urlando, l’urlo c’è stato; piú realtà di cosí".
Chiaro, vero? Spero che il titolo, che è una citazione ripresa dal libro, nella bellissima traduzione di Giorgio Monicelli, non ti abbia impedito di leggere il resto
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