Una cosa che conosci bene e venga giù liscia e piana.
Sii sincera, che le bugie ti fanno schifo.
Ho perso tempo per un
motivo stupido.
E comunque non lo so se lui mi ama.
Ora aggiusto
da giorni vecchi appunti senza l'entusiasmo
dell'inizio. Lavoro d'accétta, dico scrivilo e
basta: un inizio, una fine, e un po' di roba in mezzo. E comunque non lo so se lui mi ama.
Però non succede niente.
Allora ho un libro che uso come casa,
ci torno ogni volta che mi sento strana. S'intitola I beati anni del castigo ed
è scritto come un canto di sirena.
Ascolto la musica e mollo la
briglia, e capisco che è la calma che mi mortifica.
Ci sono due ragazze in un collegio
svizzero. Una è selvatica e s’immagina morta, l’altra è Frédérique e non parla.
La loro amicizia è inerte di abbracci, la loro obbedienza una colonia di germi.
Hanno il disgusto e il talento degli idoli, e forse Frédérique è anche pazza. Parla
feroce fissando il vuoto, inclina alla forca, non tiene alla vita e non si preserva.
Magari per voi è stupida e
pazienza, però per me è bellissima. C'è qualcosa di assoluto e di imprendibile in certi esseri, sembra una lontananza dal mondo, dai vivi ma sembra anche il segno di chi subisce un potere che non conosciamo.
L’adolescenza è un inventario di presagi, ha già dentro un cimitero.
Fleur Jaeggy scrive cosmogonie
inquiete con l’autorità di una sfinge. Ha un vocabolario così minimo e austero
da sembrare una formula. Tende i nervi alla sottrazione: l’allegria diventa un
fronzolo, il dolore una bussola. Non ha paura dei mostri, paga il biglietto per
vederli. Cammina sola nel bosco, batte a macchina e dice che la convalescenza
non può avere fine, perché la malattia è cronica.
Se non hai un po’ d’ascesi
dissociata, una serie di cadute, magagne, emicranie, ruggine, cure di chemio o
in manicomio forse è difficile capire.
Però ogni volta che mi perdo la
rileggo e le do retta. Mi dice che è tutto a posto, di dare luce e acqua al
mostro. Ascoltarne la storia e metterla in riga. Nel senso di darle parola, non disciplina.
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